L’imponente aumento di capitale di Unicredit, in corso in questi giorni, ha conquistato le prime pagine di tutti i giornali: la seconda banca italiana per dimensioni ha infatti chiesto ai suoi azionisti di mettere mano al portafoglio in maniera importante per rafforzare il capitale sociale. L’operazione è finalizzata ad ottenere dagli investitori 13 miliardi di denaro fresco, una cifra quasi pari al valore dell’intera società prima dell’aumento (circa 16 miliardi) e di poco superiore alle perdite registrate a bilancio nel solo anno 2016, pari a 11,8 miliardi di euro. Per gli azionisti di Unicredit si tratta di decidere se dare ancora fiducia alla banca in cui hanno investito ed al nuovo management nominato di recente: una scelta certamente non facile, dato che aderire all’aumento di capitale significa per loro disporre di un capitale da investire cospicuo, pari a quello attualmente rappresentato dalle azioni Unicredit di cui sono in possesso, tenendo conto che le stesse si sono già svalutate parecchio nel corso degli anni passati, generando in molti casi perdite finanziarie drammatiche per i detentori del titolo (vicine al 90% negli ultimi 10 anni, come si vede nel grafico sottostante!):
Senza entrare nel merito dell’operazione specifica (se vuoi un parere personalizzato sull’aumento di capitale Unicredit puoi scrivermi a info@capireperinvestire.it), vediamo insieme che cosa esattamente è un aumento di capitale.
Ogni società per azioni, al momento della sua fondazione, deve prevedere un capitale sociale, che viene indicato nello statuto. In determinate circostanze, nel corso del tempo può essere necessario incrementare tale patrimonio, che può servire per crescere e sviluppare l’azienda o, in casi meno fortunati, a ripristinare una situazione di sicurezza finanziaria a seguito di andamenti negativi dell’attività di impresa: si parla così di “aumento di capitale (sociale)”. L’operazione può essere compiuta in maniera gratuita (convertendo in capitale sociale parte delle riserve disponibili o degli utili passati) o, più frequentemente, a pagamento (detto anche “oneroso”), mediante l’emissione di nuove azioni (direttamente, o tramite warrant e/o obbligazioni convertibili). Poiché in tal modo si va a modificare un aspetto fondamentale della società, l’aumento di capitale deve sempre essere approvato dall’assemblea straordinaria dei soci, che in caso di voto favorevole autorizzano gli organi amministrativi dell’azienda ad effettuarlo nei tempi e nei modi previsti.
Un principio fondamentale dell’aumento di capitale è che gli azionisti esistenti devono vedere inizialmente tutelata la loro quota di partecipazione nella società. Per questo motivo, ogni aumento di capitale prevede l’assegnazione agli azionisti, in proporzione alla percentuale spettante, di titoli che vengono definiti “diritti di opzione”, i quali rappresentano appunto il diritto (non l’obbligo) in prelazione a partecipare all’aumento di capitale per mantenere invariata la loro quota partecipativa nell’azienda. Nel caso di Unicredit, ad esempio, è stato assegnato un diritto di opzione per ogni azione posseduta: tale diritto consente al detentore di sottoscrivere 13 nuove azioni ogni 5 vecchie possedute al prezzo di 8,09 euro ciascuna (quindi, ad esempio, con 5 diritti si possono acquistare 13 azioni Unicredit spendendo 105,17 euro).
Il diritto di opzione, che viene “staccato” dall’azione nel giorno di inizio dell’aumento di capitale, diventa un titolo a sé stante, liberamente negoziabile sul mercato azionario nel caso in cui l’azienda oggetto dell’aumento sia quotata.
Ogni azionista, infatti, si trova in quel momento dinnanzi ad una scelta. Può decidere di aderire all’aumento di capitale, versando l’importo richiesto per ottenere le nuove azioni emesse e mantenere così invariata la sua partecipazione nella società, oppure può scegliere di vendere il diritto, monetizzando in qualche modo la diluizione della sua partecipazione al capitale dell’azienda: il diritto verrà acquistato da chi invece desidera partecipare all’aumento di capitale senza averne i requisiti originari. Ovviamente è possibile adottare una soluzione intermedia, aderendo soltanto in parte all’aumento di capitale e vendendo la rimanente parte dei diritti, magari proprio per finanziare la sottoscrizione delle nuove azioni.
I diritti di opzione hanno un prezzo teorico, determinato facendo un calcolo (ponderato per il numero di azioni vecchie e di nuova emissione) del valore che la nuova azione dovrebbe avere al termine dell’aumento di capitale, il cosiddetto TERP (Theoretical ex rights price, prezzo teorico ex diritto), e sottraendolo al prezzo dell’azione prima dell’aumento di capitale. In realtà, sul mercato il valore dei diritti oscilla parecchio, perché è influenzato anche dalle attese sul successo dell’aumento di capitale e sull’andamento futuro dell’azione.
Al termine del periodo di negoziazione dei diritti, per i detentori rimane qualche giorno di tempo per comunicare all’intermediario finanziario la volontà di esercitarli, ovvero di voler aderire all’aumento di capitale versando il corrispettivo in denaro. Nel caso in cui ciò non venga fatto, il possessore del titolo viene “privato” del diritto che torna nelle disponibilità della società, la quale procede all’offerta dei “diritti inoptati” (appunto quelli non esercitati), mediante vendita sul mercato “al meglio” (ovvero senza un prezzo minimo) per 5 giorni consecutivi (il 20% del quantitativo ogni giorno), al fine di valutare se c’è interesse da parte di qualcuno ad acquistarli per poi esercitarli.
L’operazione di aumento di capitale è ormai giunta quasi al termine. Rimangono da valutare due aspetti importanti. Il primo riguarda la eventuale presenza di un consorzio di garanzia, ovvero un gruppo di banche ed investitori istituzionali che si impegnano a coprire finanziariamente la parte di aumento di capitale non finanziata dagli investitori, garantendo in tal modo la certezza che l’operazione vada a buon fine (è il caso, ad esempio, dell’aumento di capitale Unicredit). Nel caso in cui non sia presente un consorzio di garanzia, invece, è fondamentale verificare se l’aumento di capitale è stato definito “inscindibile” oppure “scindibile”: nel primo caso, infatti, è necessario che tutte le nuove azioni vengano sottoscritte perché l’operazione si finalizzi, basterebbe anche un solo diritto non esercitato perché l’intero aumento di capitale venga annullato, con le ovvie conseguenze per l’azienda (si tratta però di un caso molto raro).